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Intervista a Giorgio Lotti

Un Maestro, nel vero senso della parola: Giorgio Lotti, con le sue fotografie e il suo lavoro, viaggiando per il mondo, ci ha raccontato mezzo secolo di storia politica, civile e artistica. Dai ritratti ai protagonisti di questa storia (da Arafat a Zhou en Lai, da Andy Warhol a Montale e Ungaretti) fino ai reportage su avvenimenti che l’hanno segnata in profondità (il Vajont, le prime navi cariche di migranti dall’Albania, l’alluvione di Firenze), il suo è sempre stato un occhio profondo, ma discreto ed elegante. Abbiamo avuto l’onore e il piacere di stampare molte sue opere e di aver approfondito lo spessore del fotografo e la cordialità e l’intelligenza della persona. 

Ci racconti i tuoi primi passi nel mondo della fotografia, che anni erano, e come hai cominciato?

Ero appassionato di cinema! Ricordo che andavo al cinema tutti i giorni, alle cinque del pomeriggio, e vi rimanevo fino a sera. Per vedere e capire un film infatti lo sezionavo in tre parti, interpretazione, fotografia e scenografia. E lo vedevo tre volte, tutti i giorni. Una sera ricordo che entrò al cinema mia mamma arrabbiata per i miei ritardi e mi proibì di tornarci! Ma poi fu lei, che ogni mattina mi portava a letto la colazione, a consigliarmi di iscrivermi a un corso di fotografia. Ne ho frequentati alcune, poi un amico mi invitò a Milano, presso una agenzia fotografica che serviva molti importanti quotidiani (come l’Avanti, l’Unità, la Notte, Il Lombardo) e cominciai a lavorare come professionista. Fu una esperienza incredibile che durò cinque anni, durante i quali cominciai anche a collaborare con riviste straniere come Paris Match, finché fui chiamato da Epoca, la più importante rivista di allora. Lì mi misero, per cosi dire alla prova, ricordo che mi mandarono a fotografare un famoso medico. Ai tempi, per quel tipo di foto tutti usavano il flash, mentre io mi dissi: “non posso usare il flash”, perché l’ambiente era pieno di una luce particolarmente interessante, e feci il lavoro senza flash. Funzionò e fui assunto. L’ esperienza di Epoca fu incredibile, già c’erano De Biasi e Del Grande, noi fotografi eravamo come fratelli, con una correttezza e onestà di fondo. Eri considerato un giornalista e c’era uno scambio di idee e opinioni costante. Era importante essere utili, non essere bravi e c’era molta fiducia nei fotografi a Epoca, se avevi una idea era considerata una buona idea. Penso che oggi sia una esperienza irripetibile. 

Quali erano i fotografi che allora ritenevi di riferimento?

Il primo nome che mi viene in mente è Ugo Mulas in Italia, molti erano all’estero. Importante era fare attenzione a come evolveva il modo di fotografare.

Come hai vissuto il passaggio alla tecnologia digitale?

Ho lavorato alla Scala di Milano per quattro anni, lì feci molte serate, ed ero costretto a usare contemporaneamente tre macchine fotografiche con tre pellicole di sensibilità diverse. Da questo punto di vista, oggi, il digitale rappresenta un grande vantaggio tecnico, poiché con una macchina fotografica sola si fa di tutto. Poi ci sono anche i problemi connessi al digitale, per esempio il ricorso eccessivo al fotoritocco, bisognerebbe essere preparati a fare le inquadrature giuste e togliere gli elementi di disturbo mentre si scatta, in questo senso la pellicola ti obbligava a comporre.   

A quale delle tante storie che hai raccontato o fotografie che hai scattato sei più legato?

Direi i servizi durante l’alluvione di Firenze e al funerale di Padre Pio, non avevo mai visto migliaia di fedeli così coinvolti, ne rimasi impressionato.  

Che futuro vedi per la fotografia?

E’ sempre più difficile essere professionisti. In tutti i sensi. La cosa importante della professionalità non è solo saper fotografare ma è anche comportarsi professionalmente, far pagare il giusto prezzo, dare il giusto valore al lavoro. Oggi per molti motivi è difficile lavorare.  E’ importante poi valorizzare arte e cultura, studiare e cambiare mentalità: i grandi fotografi hanno fatto 10 - 15 lavori, non cinquemila, la qualità conta, non la quantità. Una volta avevamo tempo e modo di sviluppare il nostro lavoro: quando lavorai alla Scala, per esempio,  Paolo Grassi mi chiamò quattro anni prima del bicentenario (e del libro)  e mi diede un permesso per entrare in Teatro quando volevo. Quattro anni prima! Sapeva che per fare un buon lavoro ci vuole questo tempo, e finii a vivere con gli artisti, la Fracci, la Savignano, Nureyev, con loro si creò un rapporto di fiducia che fu la chiave della riuscita del libro. 


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