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Intervista a Luigi Baldelli

L’Afghanistan insieme a Ettore Mo, la ex Jugoslavia, il Rwanda, l’Ebola in Sierra Leone sono solo alcuni dei reportage, firmati da Luigi Baldelli per quotidiani come il Corriere della Sera o magazine internazionali, che fanno di lui un punto di riferimento tra i fotoreporter della scena contemporanea. Perennemente in viaggio nei più remoti e disagiati luoghi del mondo, Luigi Baldelli è rappresentante di punta del fotogiornalismo italiano, allievo e stilisticamente continuatore dei maestri della scuola di Epoca o del reportage politico e di cronaca della Roma segnata dal brigatismo e dalle lotte degli anni 60 e 70. Il suo è un linguaggio fotografico diretto e personale, che punta a sintetizzare una immagine per portare alla luce - attraverso i gesti, le espressioni e gli sguardi -  tante storie da raccontare. 

Come hai cominciato questo mestiere?

La fotografia mi è sempre piaciuta, ai tempi del liceo era una passione che coltivavo a livello amatoriale, poi ho provato a farlo come mestiere. A Roma c’erano ai tempi molte opportunità, poiché lì avevano sede le redazioni di molti giornali importanti.  Incominciai con alcuni fotografi che avevano aperto una agenzia che si occupava in particolare di seguire la cronaca di Roma (per Repubblica, Corriere, Messaggero) ed era uno staff fotografico notevole. Dall’87 ho cominciato a lavorare con l’agenzia Contrasto (una esperienza durata per docici anni), poi con Grazia Neri e infine come free lance. Ho un ricordo che risale alle scuole medie: il professore di Educazione Tecnica ci insegnò la fotografia con una Pentax Spotmatic e i principi della camera oscura, e li è cominciata la passione. La fotografia mi attirava molto anche perché c’erano bellissime riviste con cui seguire l’evoluzione del linguaggio (Epoca, Life, Europeo, e le grandi collane di fotografia). Il reportage fu un po’ una conseguenza delle mie prime esperienze. Con Contrasto ho scattato molta politica in Italia (manifestazioni, personaggi, eventi) e nel 1989 incominciai i primi viaggi all’estero con la caduta del muro di Berlino e le rivoluzioni nell’ex Europa dell’Est. Da allora ho sempre viaggiato molto per il mondo. 

Quali sono i nomi di riferimento, giornalisti o fotografi, che ti hanno più influenzato?

Tra i fotografi sicuramente Vezio Sabatini: fotografava i personaggi politici ma non era un semplice fotografo. Era il più bravo di tutti, la sua non era la classica foto al politico di turno, ma sapeva cogliere gestualità, sguardi, riusciva a cogliere oltre l’apparenza. Fu una grande scuola. Altri fotografi di riferimento? Mi vengono in mente Giorgio Lotti e i fotografi di Epoca, ovviamente James Nachtwey, un grande esempio per tutti. Mi piace molto Luc Delahaye. Ricordo anche Gianni Giansanti (un eccezionale libro sul Vaticano, e la famosa foto di Aldo Moro morto nella Renault 4), era un fotografo di Sigma accreditato in Vaticano, fece un libro su Papa Wojtila davvero notevole. Roberto Koch è stata ed è una grande guida a Contrasto. Tra i miei preferiti ci sono anche Gilles Peress, (guardatevi libri come The silence: Ruanda o Telex Iran, o i lavori in Bosnia), e Salgado, che ho incontrato più volte. Voglio citare anche dei non fotografi: Ettore Mo, con cui ho lavorato 20 anni insieme, mi ha insegnato tanto, era un giornalista di penna ma mi ha insegnato molto, vedeva le cose prima di tutti, cosi come Bernardo Valli o Mimmo Candido. 

Ci sono foto o esperienze a cui sei particolarmente legato?

Ho seguito l’Afganistan dal 1995 con Ettore Mo fino al 2013, quello è il paese che mi ha più colpito, come anche il centro del Sud America. 

A un giovane oggi cosa diresti?

Un tempo avrei detto vai all’estero, oggi alla luce di quello che sta accadendo viaggiare sarà diverso, ma gli direi “vai e diventa uno specialista di quel paese”. Non è vero che il foto giornalismo è morto. Chiaramente i giornali hanno difficoltà a sostenere i costi di un reportage, ma occorre allargare il panorama, ci sono molte altre possibilità, c’è il web, e la gente è sempre interessata alle storie. Occorre certamente  mettersi in gioco studiando, ampliando la propria cultura, interessarsi d’arte, politica. La cosa principale, su queste basi, è comunque avere una idea da sviluppare.  Credo che non consiglierei le scuole di fotografia. Consiglierei piuttosto la gavetta presso uno studio.  Porti magari per mesi il caffè a un fotografo di moda, però sei lì, vedi, vivi il mestiere. 

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